La Corte UE boccia l’Italia sui “Paesi sicuri”: scontro tra giustizia europea e politica migratoria nazionale

Una recente sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riportato al centro del dibattito pubblico e politico le scelte dell’Italia in materia di immigrazione, sollevando importanti interrogativi sull’equilibrio tra legislazione nazionale, normative europee e tutela dei diritti fondamentali. L’attenzione si è concentrata in particolare sul protocollo siglato tra Italia e Albania e sul controverso concetto dei cosiddetti “Paesi sicuri d’origine”.

La Corte Europea ha espresso un giudizio chiaro: uno Stato membro dell’UE può designare alcuni Paesi come “sicuri” solo attraverso un atto legislativo, purché tale designazione sia soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente. Non è sufficiente, secondo i giudici europei, un’approvazione meramente politica o amministrativa. Occorre che le informazioni e le fonti utilizzate per determinare la sicurezza di un Paese siano accessibili sia ai richiedenti asilo sia ai giudici che dovranno eventualmente pronunciarsi in merito ai ricorsi.

Questo orientamento giuridico è stato applicato anche al protocollo tra Roma e Tirana, che prevede il trasferimento dei migranti verso i Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) situati in Albania, quindi al di fuori del territorio italiano. La Corte ha sottolineato che qualsiasi misura che implichi il rimpatrio o la detenzione dei migranti deve rispettare i criteri oggettivi e trasparenti stabiliti dal diritto europeo. Le decisioni di tipo politico non possono prevalere sui diritti della persona né aggirare le garanzie previste dal sistema giuridico comunitario.

Questa sentenza, che avrà valore fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo prevista per il 12 giugno 2026 (a meno di una possibile anticipazione), ha provocato reazioni contrastanti e accese. Da un lato, molti giuristi e difensori dei diritti umani hanno accolto con favore la decisione, considerandola un’importante riaffermazione dei valori fondanti dell’Unione, come la tutela dei diritti individuali, la separazione dei poteri e la centralità della giurisdizione. Dall’altro lato, il governo italiano ha manifestato preoccupazione e sconcerto.

Palazzo Chigi ha reagito con una nota ufficiale, definendo la sentenza come un’invasione indebita della sfera politica da parte della magistratura europea. Il comunicato sottolinea che “la decisione della Corte di Giustizia UE sorprende, poiché attribuisce ai giudici nazionali poteri che spettano alla politica. La Corte consegna così a un qualunque tribunale la possibilità di sindacare non solo sui singoli casi di richiedenti asilo, ma addirittura su intere politiche pubbliche legate ai rimpatri e alle espulsioni degli irregolari”.

L’esecutivo ha inoltre criticato il fatto che le valutazioni dei giudici possano basarsi su fonti di tipo privato, superando le analisi complesse e dettagliate svolte dai ministeri competenti e approvate dal Parlamento. Si tratta, secondo il governo, di una distorsione dell’equilibrio tra poteri e di una negazione del principio di sovranità nazionale su questioni politicamente sensibili come la gestione dei flussi migratori.

In risposta, alcuni esponenti del mondo giuridico hanno voluto ribadire che la decisione della Corte non limita la sovranità degli Stati, ma ne rafforza il rispetto del diritto e dei trattati firmati. Per Dario Belluccio, avvocato che rappresenta uno dei migranti coinvolti nei ricorsi presentati al Tribunale di Roma, la pronuncia “conferma la legittimità delle valutazioni compiute dai giudici italiani e sancisce che la giustizia non può essere messa da parte in nome di scelte esclusivamente politiche. Anche nelle situazioni più complesse, come quella dell’immigrazione, lo Stato di diritto deve restare saldo e centrale”.

In conclusione, la sentenza della Corte di Giustizia UE impone all’Italia — e a tutti gli Stati membri — di riconsiderare attentamente i propri meccanismi decisionali in materia migratoria, in particolare quando si tratta di etichettare un Paese come “sicuro”. La vera sfida ora sarà trovare un punto di equilibrio tra il legittimo desiderio di controllare i flussi migratori e l’obbligo giuridico di garantire i diritti umani, nel rispetto delle regole comuni dell’Unione Europea. Un compito non semplice, ma imprescindibile in un’Europa che si fonda su valori condivisi e su una giustizia che tutela tutti, anche i più vulnerabili.

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