Martina Oppelli aveva solo 49 anni quando ha deciso di mettere fine alla sua esistenza in Svizzera, scegliendo la strada del suicidio assistito. Da vent’anni lottava con la sclerosi multipla, una malattia neurodegenerativa che l’aveva progressivamente privata dell’autonomia e della qualità della vita. In Italia, nonostante le sue condizioni gravemente invalidanti, le era stato negato per ben tre volte l’accesso al suicidio assistito da parte dell’Azienda sanitaria giuliano isontina. Un rifiuto che l’ha spinta, prima della morte, a presentare una denuncia per tortura nei confronti dell’ASL.
Una battaglia, quella di Martina, che non si è fermata nemmeno di fronte al dolore fisico e psicologico. Con l’aiuto della sua legale, l’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, ha avviato un’azione legale per denunciare quanto aveva subito da parte delle istituzioni sanitarie italiane. La denuncia è stata depositata pochi giorni prima del suo viaggio in Svizzera, e rappresenta un atto di accusa non solo verso l’ASL specifica, ma verso un intero sistema che – secondo Martina – l’ha obbligata a una sofferenza insopportabile e inutile.
Durante la conferenza stampa tenutasi a Trieste, Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha illustrato il contenuto della denuncia. Martina aveva accusato l’ASL di due gravi reati: il primo, quello di tortura, legato alle sofferenze inflitte dalla reiterata negazione del diritto a morire con dignità; il secondo, il rifiuto di atti d’ufficio, poiché l’ente sanitario non avrebbe adempiuto agli obblighi previsti dalla legge.
Cappato ha dichiarato: “Con Claudio Stellari, Matteo D’Angelo e Felicetta Maltese abbiamo deciso di non presentarci alle forze dell’ordine per autodenunciarci, perché la denuncia esiste già: è quella di Martina, contro uno Stato che l’ha costretta a subire una vera e propria tortura. È contro un sistema sanitario, quello della Regione Friuli Venezia Giulia, che non ha svolto il proprio compito, in linea con le posizioni del presidente Fedriga in tema di fine vita”.
Le parole di Cappato risuonano forti e chiare. Secondo lui, il caso di Martina è emblematico di un’inerzia istituzionale che viola i diritti fondamentali dell’individuo, specialmente di chi vive ogni giorno una condizione di sofferenza cronica e incurabile. “Siamo disponibili a collaborare con la magistratura e fornire tutte le informazioni sull’aiuto fornito a Martina”, ha aggiunto Cappato, sottolineando che l’Associazione continuerà le sue azioni di disobbedienza civile per portare avanti la proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare l’eutanasia.
Il caso ha riacceso il dibattito nazionale sul fine vita e sul diritto all’autodeterminazione. In Italia, l’accesso al suicidio assistito è teoricamente possibile in seguito alla storica sentenza della Corte Costituzionale del 2019 (caso Cappato-Dj Fabo), ma la realtà mostra un quadro di incertezza e ostacoli burocratici. Le procedure previste dalla legge non sempre vengono attuate, e spesso le decisioni vengono rinviate o ignorate da parte delle strutture sanitarie locali.
Martina non ha voluto aspettare oltre. Dopo anni di sofferenze e richieste respinte, ha preso la decisione più difficile, ma anche l’unica che le permettesse di uscire con dignità da una condizione che non riconosceva più come “vita”. La sua scelta non è stata impulsiva: è stata meditata, ponderata, accompagnata da un percorso legale e umano che l’ha vista protagonista, non vittima. Il suo gesto, anche nella morte, diventa un grido di denuncia.
L’ultima testimonianza di Martina – quella denuncia – ora rappresenta un punto fermo per tutte le persone che vivono in condizioni simili. Il suo nome, insieme a quello di altri prima di lei, come Dj Fabo, entra nel lessico del dibattito sul diritto all’autodeterminazione. La sua storia è una richiesta accorata al legislatore perché si superi l’immobilismo e si garantisca, una volta per tutte, la possibilità di scegliere.
In memoria di Martina Oppelli, e di tutti coloro che chiedono solo un diritto: quello di morire con la stessa dignità con cui hanno lottato per vivere.