Una tragedia evitabile, un dolore che grida giustizia. Così si può riassumere il dramma vissuto da Antonella Mettini, una donna di 77 anni deceduta dopo giorni di atroce sofferenza, lasciata per 48 ore su una barella del pronto soccorso senza le cure adeguate. Una vicenda che scuote le coscienze e riapre l’annoso dibattito sulle condizioni del sistema sanitario nazionale, in particolare sul sovraffollamento e la carenza di personale nelle strutture ospedaliere.
Il figlio della vittima, Francesco Capozza, noto giornalista del quotidiano Il Tempo, ha scelto di rompere il silenzio e denunciare pubblicamente l’accaduto, con la speranza che quanto accaduto alla madre non resti un episodio isolato, ma diventi un monito affinché nessun altro paziente fragile venga abbandonato nella solitudine di un reparto.
Tutto ha inizio a fine maggio, quando Antonella viene ricoverata presso l’ospedale di Tagliacozzo a causa di un’importante infiammazione alle gambe e difficoltà nei movimenti. Le prime cure sembrano dare risultati incoraggianti. Tuttavia, il 25 giugno la situazione precipita: la donna ha un improvviso malore e perde l’uso degli arti sinistri. Viene immediatamente trasferita all’ospedale di Avezzano, dove una TAC conferma un’ischemia cerebrale. Nonostante la gravità del quadro clinico, Antonella rimane per due interminabili giorni su una barella del pronto soccorso, in attesa di un letto disponibile.
Durante queste 48 ore, le sue condizioni vengono descritte come “stabili”, ma è evidente che la mancanza di tempestività nel ricovero ha avuto un impatto devastante. Solo successivamente la paziente viene finalmente trasferita nel reparto di geriatria, sebbene inizialmente si fosse ipotizzato un ritorno a Tagliacozzo.
Nei giorni seguenti, Antonella inizia a manifestare difficoltà nell’alimentarsi. Il figlio, allarmato, chiede spiegazioni e viene informato che si stanno valutando le cause del rifiuto del cibo: si sospetta un semplice disappunto per il menù ospedaliero, ma si teme anche una condizione clinica più seria. Francesco Capozza insiste per avere risposte più precise, ma resta con dubbi e incertezze.
Il 7 luglio viene effettuata una risonanza magnetica, dalla quale emerge la necessità di un intervento chirurgico alle arterie carotidee. Tuttavia, l’operazione non viene eseguita tempestivamente. Il giorno successivo, 8 luglio, alla signora Mettini viene diagnosticata un’infezione alla colecisti. Il 9 luglio, in modo improvviso e drammatico, Antonella muore per un arresto cardiaco.
La comunicazione alla famiglia, a detta del figlio, è tardiva e poco chiara. Solo il giorno della morte viene informato dell’esistenza di una megalocardia – un ingrossamento del cuore – che peggiorava ulteriormente il quadro clinico già compromesso. Scioccato da quanto accaduto, Francesco decide di agire legalmente. Affida il caso a un avvocato e presenta una denuncia alla Procura di Avezzano, che apre un fascicolo per omicidio colposo in ambito sanitario contro ignoti.
L’obiettivo dell’indagine sarà quello di chiarire se vi siano state negligenze, ritardi ingiustificati o sottovalutazioni da parte del personale medico nella gestione del caso, soprattutto nei momenti cruciali successivi all’ischemia cerebrale e durante il periodo di degenza nel reparto di geriatria. Elementi, questi, che potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte di una paziente anziana e fragile.
“Non cerco vendetta – dichiara Capozza – ma la verità. Nessuno potrà ridarmi mia madre, ma se il suo sacrificio servirà a impedire che altri subiscano la stessa sorte, allora non sarà stato vano.” Il dolore si fa denuncia, e la denuncia diventa una richiesta collettiva di riforma e attenzione.
La vicenda di Antonella Mettini rappresenta purtroppo un simbolo delle criticità che affliggono il sistema sanitario in molte aree del Paese: pronto soccorso saturi, personale insufficiente, comunicazioni inadeguate con i familiari, diagnosi ritardate e trattamenti differiti. La speranza è che questo tragico episodio non cada nel dimenticatoio, ma apra uno spiraglio verso una maggiore umanità e professionalità nei confronti dei pazienti più deboli.