Referendum flop: astensione record e centrosinistra in crisi, Italia dice no con il silenzio

Referendum senza quorum: astensione di massa e sconfitta simbolica per il centrosinistra

Il risultato delle urne non lascia spazio a interpretazioni: i referendum su lavoro e cittadinanza non hanno raggiunto il quorum necessario per essere validi. L’affluenza complessiva si è attestata intorno al 30%, con una percentuale parziale del 22,7% registrata durante la giornata di domenica 8 giugno. Un segnale inequivocabile da parte degli elettori italiani, che hanno scelto in larga misura di non recarsi alle urne, trasformando così un’iniziativa nata con l’intento di rilanciare il dibattito democratico in un fallimento strategico, in particolare per le forze del centrosinistra.

La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, aveva scommesso molto su questa consultazione, vedendola come un’occasione per riavvicinare i cittadini alla politica e stimolare la partecipazione attiva. Tuttavia, la risposta della popolazione è stata caratterizzata da un’astensione diffusa, che suona quasi come una condanna silenziosa all’intero impianto dell’iniziativa.

Diversamente, il centrodestra ha optato per una linea di disimpegno tattico, mantenendo un profilo basso e lasciando che il disinteresse generale facesse il suo corso. Nessuna mobilitazione, nessuna campagna in opposizione esplicita: semplicemente un atteggiamento attendista che, alla fine, si è rivelato vincente. Il risultato? Una vittoria per l’astensione e un rafforzamento dell’area conservatrice, mentre il centrosinistra appare disorientato e diviso.

Le reazioni del mondo politico non si sono fatte attendere. Il Presidente del Senato Ignazio La Russa ha colto subito l’occasione per attaccare gli avversari: “Con un linguaggio aggressivo e divisivo, Schlein, Bonelli e certi opinionisti hanno allontanato gli elettori. Ho ricevuto numerose segnalazioni di persone che hanno deciso di non votare per puro disgusto”. Una critica dura, che punta il dito contro lo stile comunicativo della sinistra, accusato di essere più utile a creare distanze che a costruire ponti.

Anche il vicepresidente del Consiglio, Antonio Tajani, ha voluto esprimere il proprio punto di vista, suggerendo una riflessione più ampia sulle regole referendarie: “Forse è giunto il momento di rivedere la normativa che regola i referendum. Abbiamo speso milioni per inviare schede agli italiani all’estero, molte delle quali sono tornate indietro senza nemmeno essere compilate”.

L’analisi territoriale dei dati rivela una frattura significativa tra Nord e Sud. Le regioni meridionali hanno registrato le percentuali più basse: in Sicilia ha votato solo il 16,2% degli aventi diritto, mentre in Calabria l’affluenza si è fermata al 17,3%. Al contrario, regioni storicamente più attive sul fronte politico, come la Toscana e l’Emilia-Romagna, hanno superato – seppur di poco – la soglia del 25%. Tuttavia, nessuna zona del Paese è riuscita a raggiungere il fatidico 50% più uno, necessario per convalidare il risultato.

Questo fallimento mina profondamente la legittimità dello strumento referendario, e soprattutto indebolisce la posizione di coloro che volevano utilizzarlo come mezzo per rilanciare l’agenda politica progressista. Il risultato è una sonora bocciatura non solo del contenuto dei quesiti, ma anche del modo in cui è stata gestita la campagna.

In un’Italia sempre più disillusa, dove la partecipazione democratica sembra affievolirsi di giorno in giorno, si fa urgente il bisogno di ripensare non solo gli strumenti, ma anche il linguaggio e i canali attraverso cui la politica si rivolge ai cittadini. L’astensione non è solo un numero: è un messaggio. E chi intende rappresentare il Paese non può permettersi di ignorarlo.

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