Giorgia Meloni e il referendum: la frase che divide l’Italia politica alla vigilia del voto
Il 2 giugno, mentre l’Italia festeggia la sua Festa della Repubblica con le tradizionali parate ai Fori Imperiali e le alte cariche dello Stato in uniforme, un momento fugace si trasforma in un caso politico. Tra una celebrazione e l’altra, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si concede ai giornalisti. Le domande si susseguono, ma una in particolare attira l’attenzione: cosa farà l’8 e 9 giugno in occasione del referendum? La risposta della premier è asciutta ma significativa: «Vado a votare, non ritiro la scheda. È una delle opzioni». Sei parole, mezza frase, ed è subito polemica.
Quelle poche parole bastano per riaccendere un dibattito acceso, che si insinua tra le pieghe del significato simbolico della giornata. Non è un caso che la bufera politica esploda proprio il 2 giugno, giorno in cui si celebra la nascita della Repubblica, conquistata anche grazie al voto delle donne nel 1946. La posizione di Meloni, per molti, stride con lo spirito democratico della ricorrenza.
Il Partito Democratico è tra i primi a reagire. Dario Parrini, senatore dem, non usa mezzi termini: «Non si prendano in giro gli italiani». Per lui, andare al seggio e non ritirare la scheda equivale a disertare il voto, e in quanto tale sarebbe un atto di sabotaggio. Ma se a compierlo è il Presidente del Consiglio, allora si tratterebbe addirittura di un “inganno istituzionale”. Toni duri, diretti, che trovano eco anche tra altri esponenti dell’opposizione.
Anche Angelo Bonelli, rappresentante dell’alleanza Verdi-Sinistra, interviene con parole affilate. Secondo lui, l’elenco dei “sabotatori” si è ormai completato: dopo La Russa e alcuni ministri, ora anche Meloni. La accusa di alimentare un astensionismo strisciante, che pubblicamente dichiara di voler contrastare. «Hanno paura», dice Bonelli, «perché sanno che il quorum può essere raggiunto». Il sottotesto è chiaro: la Premier, secondo lui, tenta di minare il successo del referendum delegittimandolo con gesti ambigui.
Non tarda ad arrivare nemmeno il commento di Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, che sceglie i social per lanciare il suo affondo. «Non sorprende, ma indigna», scrive. E sottolinea l’amarezza nel vedere che proprio il 2 giugno, simbolo di democrazia e partecipazione popolare, si invii un messaggio così disimpegnato da parte della massima carica del governo. Conte attacca direttamente la figura della Premier: «In trent’anni non ha mai fatto nulla per i lavoratori, e ora li abbandona anche nel diritto al voto». Un’accusa pesante, che aggiunge tensione a una campagna referendaria già segnata da scarsa partecipazione e da un clima di crescente disillusione.
Nel frattempo, il fronte politico si spacca. Da una parte chi difende la libertà individuale di ciascun cittadino – compresa quella di recarsi al seggio senza votare – dall’altra chi legge in quell’atto un gesto profondamente politico, quasi un segnale istituzionale contro il senso stesso del referendum. La discussione non è soltanto giuridica, ma etica. Che messaggio lancia un leader quando sceglie di non esercitare appieno il suo diritto di voto? È un gesto neutro o una dichiarazione?
I sostenitori della Premier provano a ridimensionare la polemica. Alcuni sottolineano che non ritirare la scheda è una scelta prevista dalla legge e che, quindi, non si tratterebbe di boicottaggio ma di un’opzione legittima. Altri, invece, mettono l’accento sul valore simbolico del gesto: un modo per esprimere dissenso sul contenuto o sulle modalità del referendum stesso, senza disertare del tutto le urne.
A una settimana dal voto, il clima si è già surriscaldato. Il gesto della Presidente del Consiglio ha innescato una reazione a catena che rischia di polarizzare ulteriormente il dibattito pubblico. In un momento storico in cui la partecipazione democratica è in crisi, ogni parola, ogni gesto delle figure istituzionali assume un significato amplificato. La riflessione, ora, tocca tutti: quanto pesa il silenzio nel linguaggio della politica?