Martina Carbonaro, uccisa a 14 anni: il padre accusa l’ex e chiede giustizia

C’è un uomo che cammina in silenzio lungo i marciapiedi di Afragola, a pochi passi dallo stadio Moccia. Tiene lo sguardo fisso sull’asfalto, il volto segnato da un dolore profondo e silenzioso. Tutti lo riconoscono: è Marcello, il padre di Martina Carbonaro. La sua presenza, muta ma imponente, racconta più di mille parole. La tragedia lo ha colpito con ferocia: Martina, sua figlia, una ragazzina di soli 14 anni, è stata strappata alla vita in modo crudele. A compiere l’atroce gesto è stato Alessio Tucci, il suo ex ragazzo. Le ha tolto tutto: il respiro, il futuro, la serenità di chi la amava.

Marcello non cerca pietà, solo giustizia. Lo dice con voce bassa ma ferma, lo sguardo diritto, senza tentennamenti. “Non avrò mai pace”, afferma, con la dignità di chi è stato spezzato, ma non piegato. “Voglio solo giustizia. Mia figlia è stata uccisa a tradimento.”

Ricorda con lucidità quei momenti terribili, come se fossero ancora vivi dentro di lui. E ciò che sconvolge ancora di più è il fatto che Alessio, colui che avrebbe dovuto amarla, era lì, accanto a lui, a cercarla. Una messinscena gelida e spietata. “Ci ha traditi tutti – dice Marcello – cercava Martina insieme a noi, quando sapeva già dove si trovava. L’aveva già uccisa. È stato come recitare una parte in un teatro dell’orrore.”

Le sue parole diventano ancora più taglienti quando parla del padre di Alessio. “Anche lui era lì, tra le persone che partecipavano alle ricerche. Come ha potuto guardarci negli occhi? Come ha potuto fingersi partecipe, mentre sapeva?” Non c’è rabbia nelle sue frasi, ma una ferita che scava in profondità. Una ferita che si chiama tradimento.

La voce di Marcello si fa più intima quando si apre ai ricordi familiari. Parla di Alessio come di un figlio acquisito. “Veniva spesso a casa nostra. Mangiava con noi. Gli volevo bene”, racconta con un filo di voce. E poi, quasi con incredulità, aggiunge: “Me lo sono portato pure in vacanza.”

Questi ricordi, che un tempo avrebbero fatto sorridere, ora pesano come macigni. Perché è difficile accettare che proprio quella persona, accolta come uno di famiglia, sia diventata il carnefice della propria figlia. La consapevolezza che Alessio fosse presente durante le ricerche, fingendo dolore e preoccupazione, rende la tragedia ancora più insopportabile.

Marcello racconta anche il primo confronto avuto con Alessio dopo la scomparsa di Martina. Una conversazione surreale. Alessio sosteneva che Martina lo avesse aggredito, che lui si fosse allontanato per quel motivo, che persino la sua famiglia non voleva più avere contatti con lei. “Era solo l’inizio dell’orrore”, dice Marcello con amarezza. Una giustificazione squallida, un tentativo maldestro di gettare discredito su una ragazza che non poteva più difendersi.

Marcello è diretto, non si nasconde dietro frasi di circostanza. “Lui è l’assassino. Deve essere condannato all’ergastolo.” Non c’è sete di vendetta nelle sue parole, ma il bisogno profondo di verità. Quella verità che potrebbe, forse, dare un senso a un dolore che altrimenti resterebbe solo un vuoto eterno.

Mentre pronuncia il nome di sua figlia, lo fa con una dolcezza quasi struggente, come se potesse evocarla, farla tornare per un istante, semplicemente dicendolo ad alta voce. “Martina”. Un nome che ora è una preghiera, un sussurro, un grido trattenuto.

Storie come quella di Martina non finiscono mai davvero. Restano. Restano nella memoria collettiva di una comunità ferita, restano nel cuore dei genitori, degli amici, di chi ha conosciuto la sua dolcezza. Restano incise sotto pelle, come una cicatrice che il tempo non può cancellare.

Marcello continuerà a camminare, ogni giorno, portando con sé il peso dell’assenza e della verità non detta. E continuerà a lottare. Per Martina. Per tutte le vittime come lei. Perché nessun padre debba più cercare sua figlia insieme a chi l’ha uccisa.

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