Filippo Turetta aggredito in carcere: il pugno di Cesare Dromì e le ipotesi sul movente
La vicenda che ha visto coinvolto Filippo Turetta, già al centro dell’attenzione mediatica per l’omicidio di Giulia Cecchettin, continua a far discutere. Questa volta non si tratta delle aule di tribunale né delle indagini giudiziarie, ma di quanto accaduto all’interno del carcere di Montorio, a Verona, dove Turetta si trovava detenuto. Alla fine di agosto, infatti, è stato colpito al volto con un pugno che gli ha spaccato il labbro. L’aggressore è Cesare Dromì, 55 anni, originario di Taurianova, in Calabria, un uomo con un passato criminale particolarmente pesante, fatto di omicidio, tentato omicidio, rapine e legami con la ’ndrangheta.
L’aggressione dietro le sbarre
Il fatto si è consumato in un contesto già delicato. Filippo Turetta, inizialmente ospitato nel reparto dei detenuti “protetti”, aveva richiesto il trasferimento nella sezione di alta sicurezza. La motivazione era legata alla possibilità di poter accedere a programmi lavorativi interni al carcere, una scelta che avrebbe anche alleggerito l’amministrazione penitenziaria nella gestione della sua presenza. Proprio in quell’ambiente più complesso, circondato da detenuti con condanne pesanti, è avvenuta l’aggressione.
Il pugno di Dromì non è passato inosservato. L’episodio ha destato immediata attenzione non solo tra le guardie carcerarie, ma anche nell’opinione pubblica, che si è interrogata sul significato del gesto. Subito si è diffusa l’ipotesi di un “codice d’onore”: l’assassino di una giovane donna, secondo questa ricostruzione, non sarebbe stato tollerato nemmeno tra le mura di un carcere. Tuttavia, gli sviluppi successivi hanno tracciato un quadro differente.
Un trasferimento come movente
Secondo quanto riportato da Il Gazzettino, l’aggressione potrebbe essere stata orchestrata da Dromì con uno scopo ben preciso: ottenere un trasferimento. Il detenuto calabrese, infatti, da tempo chiedeva di essere spostato dal carcere di Montorio e l’atto violento contro Turetta gli avrebbe offerto il pretesto necessario per essere allontanato. Ed è proprio ciò che è avvenuto: poco dopo l’aggressione, Dromì è stato trasferito al penitenziario di Santa Bona, a Treviso.
A rafforzare questa ipotesi ci sarebbero anche alcuni debiti contratti dallo stesso Dromì con altri detenuti. La sua permanenza a Montorio, dunque, sarebbe diventata insostenibile, tanto da spingerlo a compiere un gesto clamoroso pur di cambiare struttura detentiva.
Chi è Cesare Dromì
Il nome di Cesare Dromì non è nuovo alle cronache giudiziarie italiane. Nel 2011 fu arrestato dopo una lunga latitanza, trascorsa in gran parte in Romania. L’uomo doveva scontare oltre vent’anni di reclusione per reati gravissimi, tra cui omicidio e tentato omicidio. Nel tempo, il suo nome è stato accostato alle potenti cosche della ’ndrangheta calabrese, in particolare ai clan Sergi e Pesce, radicati nel territorio di Taurianova.
La sua carriera criminale è stata costellata da episodi violenti e da un profondo legame con la criminalità organizzata. Nonostante gli anni di carcere, la sua figura resta temuta e rispettata all’interno dell’ambiente detentivo, un contesto in cui le gerarchie non ufficiali e i rapporti di forza possono avere un peso determinante.
Le conseguenze per Turetta
Per Filippo Turetta, invece, il pugno subito rappresenta un ulteriore capitolo in una vicenda già segnata dalla tragedia. L’uomo, condannato per l’omicidio di Giulia Cecchettin, rimane una figura odiata e al centro del dibattito pubblico. La sua decisione di lasciare la sezione protetta per entrare in quella di alta sicurezza, scelta legittima sul piano procedurale, si è rivelata però rischiosa.
Il danno fisico riportato – un labbro spaccato – non ha avuto conseguenze gravi dal punto di vista medico, ma ha riacceso i riflettori sulle condizioni di sicurezza all’interno delle carceri italiane. Il dibattito, ancora una volta, si concentra sulla gestione dei detenuti “sensibili”, ovvero coloro che per la natura del reato commesso potrebbero essere esposti a rischi particolari.
Una vicenda emblematica
L’aggressione a Turetta porta alla luce diversi aspetti critici del sistema penitenziario: dalla gestione dei trasferimenti alle dinamiche interne tra detenuti, fino all’impatto mediatico che certi casi possono avere anche all’interno delle carceri. Non è raro, infatti, che un detenuto famoso o particolarmente discusso diventi bersaglio di violenze, strumentali o simboliche.
Nel caso di Dromì, la violenza appare più come un calcolo strategico che come un atto di giustizia interna. Eppure, agli occhi dell’opinione pubblica, il gesto ha assunto anche un valore simbolico: quello di una punizione inflitta a un uomo già condannato per un delitto che ha profondamente segnato il Paese.
Conclusione
La storia del pugno sferrato da Cesare Dromì a Filippo Turetta non è solo cronaca carceraria, ma uno spaccato delle contraddizioni del nostro sistema penitenziario e delle dinamiche che vi si consumano. Da un lato, emerge il cinismo di un uomo che sfrutta la violenza come mezzo per ottenere un vantaggio personale; dall’altro, la fragilità di un detenuto la cui notorietà lo rende costantemente esposto.
Resta il fatto che, dietro le sbarre, la legge scritta non è l’unica a contare: spesso a prevalere è la legge non scritta delle relazioni di potere, dei debiti e dei calcoli individuali. E in questo scenario, episodi come quello di Verona finiscono per diventare inevitabili tasselli di un mosaico complesso, che intreccia giustizia, criminalità e società.