Campo rom di via Selvanesco: tensione e silenzi dopo la tragedia di via Saponaro

Alle porte di Milano, il campo rom di via Selvanesco vive giorni di tensione e silenzi. Mercoledì mattina, le tre famiglie dei quattro minorenni coinvolti nell’incidente mortale di lunedì in via Saponaro, quartiere Gratosoglio, hanno lasciato l’area. I ragazzi erano a bordo di un’auto rubata che ha travolto e ucciso la settantunenne Cecilia De Astis. Un’uscita rapida, senza clamori, avvenuta dopo ore di interrogatori e controlli da parte della polizia. Verso le 13, alcuni componenti sono rientrati, ma non è chiaro quanti e quali ragazzi siano presenti: il loro spostamento rimane avvolto nell’incertezza.

Martedì sera, dopo essere stati trattenuti tutto il giorno al comando della polizia locale, i minorenni erano già tornati al campo. La Procura dei minori aveva deciso di riaffidarli ai genitori: il tredicenne alla guida, il dodicenne, la sorella undicenne e un’altra ragazzina poco più giovane. Tutti nuovamente “a casa”, almeno per qualche ora. Poi, il giorno successivo, la scelta di allontanarsi: una mossa che sa di protezione, forse per sottrarsi a occhi indiscreti, alle domande e ai giudizi che inevitabilmente circolano.

Il campo di via Selvanesco, descritto dal Corriere della Sera come un piccolo mondo sospeso, si presenta in questi giorni come un luogo in cui la quotidianità convive con un’atmosfera di sospetto. Erbacce alte, carcasse di veicoli bruciate, rifiuti sparsi: un paesaggio segnato dal tempo e dalla marginalità. Restano circa dieci roulotte. Sotto l’ombra di una delle più vecchie, tre donne e otto bambini si raccolgono. I piccoli giocano, le loro risate fragili interrompono a tratti il silenzio, ma il pensiero corre sempre a quei quattro che non sono lì. I ragazzi dell’auto pirata non sono visibili: gli inquirenti indicano il campo come loro residenza, ma nessuno li vede. Quando qualcuno torna, lo fa in modo veloce, silenzioso, evitando di farsi notare. Nessuna parola, nessun gesto che possa attirare attenzione.

Attorno, la presenza costante delle pattuglie di polizia. Controlli discreti ma continui. Fotografi e giornalisti restano a distanza, cercando di cogliere un’immagine, un dettaglio, una reazione. Dall’esterno il terreno può sembrare calmo, ma chi lo attraversa percepisce un’aria tesa. La vita scorre, ma come trattenuta da un filo sottile che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.

L’anziana del campo, seduta davanti alla propria roulotte, rompe il silenzio con parole dirette: «Sono andati a fare delle commissioni, a comprare acqua e cibo. Cosa volete ancora? Qui ci siamo noi, non ci interessa ciò che hanno fatto altri. Noi non c’entriamo. Vogliamo essere liberi, siamo liberi. I bambini sono stati ridati ai genitori, non hanno fatto loro nulla. Cosa state cercando?». La sua voce è ferma, quasi di sfida verso chi osserva e interroga dall’esterno.

Nonostante il ritorno temporaneo delle famiglie, il campo resta segnato da un movimento di andate e ritorni. Un via vai che rispecchia l’instabilità di queste giornate. La tragedia di via Saponaro ha lasciato un segno profondo, dentro e fuori la comunità. Da una parte, il dolore per una vita spezzata: Cecilia De Astis, una donna che stava semplicemente camminando per strada. Dall’altra, lo sconcerto per l’età dei responsabili: ragazzi appena adolescenti, già coinvolti in un episodio così grave.

Il campo diventa così un palcoscenico periferico, dove il quotidiano si mescola con l’eco di un dramma recente. Le roulotte, i panni stesi, il vociare dei bambini si intrecciano al ricordo di un’auto lanciata a tutta velocità, al boato dell’impatto, al rumore assordante della tragedia. Le donne del campo continuano a occuparsi delle faccende domestiche, ma negli sguardi si legge una tensione costante. I bambini più piccoli sembrano inconsapevoli, ma i più grandi sanno che qualcosa di grave è accaduto.

Intanto, Milano osserva e attende. Attende che le indagini facciano chiarezza, che le responsabilità vengano definite, che si capisca come sia stato possibile che quattro minorenni si trovassero alla guida di un’auto rubata, in una corsa finita con una morte. Gli inquirenti proseguono con le verifiche, mentre il quartiere Gratosoglio resta scosso. Le immagini di quella mattina sono ancora vive: la strada transennata, la gente ferma a guardare, i commenti indignati.

In via Selvanesco, invece, prevale un’altra logica: chi è dentro il campo sembra voler proteggere la propria comunità da intrusioni e giudizi esterni. Una protezione che si traduce in chiusura, in risposte brevi e secche, in sguardi bassi. È come se, per sopravvivere alla pressione, il campo avesse deciso di serrarsi su se stesso, continuando una routine fatta di piccole attività quotidiane e di un silenzio che pesa. Un silenzio che racconta, senza parole, il peso di ciò che è successo e la paura di ciò che potrà accadere.

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