Il secondo grado del processo noto come “Spartacus” si è concluso con una sentenza che ha risvegliato emozioni profonde e contrastanti, segnando un momento cruciale nella lunga battaglia contro la criminalità organizzata. Al centro dell’aula della Corte d’Appello di Roma, le parole del verdetto sono risuonate come un eco potente non solo per i diretti interessati, ma per tutta l’opinione pubblica. Tra i presenti, uno su tutti ha mostrato il peso emotivo di questa lunga vicenda: Roberto Saviano, lo scrittore e giornalista che da anni vive sotto scorta per le sue denunce contro il clan dei Casalesi. Alla lettura della sentenza, Saviano non ha saputo trattenere le lacrime, lasciando che la commozione rompesse la corazza costruita in anni di silenziosa resistenza.
La Corte ha confermato la condanna a un anno e sei mesi per Francesco Bidognetti, figura storica del clan dei Casalesi, e a un anno e due mesi per l’avvocato Michele Santonastaso. Entrambi erano accusati di aver rivolto minacce nel 2008 a Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, durante una fase delicatissima del primo processo “Spartacus”, svoltosi a Napoli. In quell’occasione, Santonastaso lesse in aula un documento firmato da Bidognetti e Antonio Iovine, altro boss di rilievo, in cui si accusavano i due giornalisti di essere al servizio della Procura, definendoli “prezzolati”, con un tono chiaramente intimidatorio.
Quel gesto, compiuto in un’aula di tribunale, rappresentava molto più di un attacco verbale: era un messaggio mafioso, deliberato e pericoloso, volto a mettere pressione sulla Corte e ad annientare la voce libera di chi raccontava la verità. La dichiarazione letta da Santonastaso era parte di una precisa strategia del clan per screditare e isolare i giornalisti scomodi. Ecco perché la magistratura ha riconosciuto nella sua azione una consapevolezza piena, attribuendogli non il ruolo di un semplice avvocato, ma di tramite diretto di una minaccia mafiosa.
Francesco Bidognetti, soprannominato “Cicciotto ‘e mezzanotte”, è attualmente detenuto in regime di 41 bis dal dicembre 1993, dopo essere stato arrestato a Lusciano, in provincia di Caserta. Nato a Casal di Principe nel 1951, è stato a lungo il braccio destro di Francesco Schiavone, noto come “Sandokan”. La sua figura è legata a episodi di violenza efferata, tra cui l’omicidio del medico Gennaro Falco, accusato da Bidognetti di non aver diagnosticato tempestivamente un tumore alla sua prima moglie, Teresa Tamburrino.
La sua storia personale si intreccia a quella di Anna Carrino, sua compagna per trent’anni e conosciuta quando lei aveva appena tredici anni. La loro relazione, iniziata in modo controverso, si è poi trasformata in un’alleanza nel cuore del clan, almeno fino a quando la Carrino non decise di collaborare con la giustizia, contribuendo a far luce sulle dinamiche interne ai Casalesi.
Il processo “Spartacus”, nelle sue varie fasi, ha rappresentato uno dei più importanti attacchi giudiziari alla camorra casertana. Proprio in questo contesto, le minacce a Saviano e Capacchione hanno assunto un significato emblematico: non solo per la violenza del gesto, ma per il tentativo sistematico di zittire chi raccontava i meccanismi del potere criminale.
Alla lettura della sentenza di secondo grado, l’emozione ha travolto Roberto Saviano. “Mi hanno rubato la vita”, ha dichiarato con voce rotta. In quell’istante, abbracciato al suo avvocato Antonio Nobile, si è sentito il peso di anni vissuti sotto protezione, lontano da una normalità negata proprio per il coraggio di raccontare.
Il verdetto ha suscitato un applauso spontaneo nell’aula, un segnale tangibile di solidarietà e riconoscenza verso chi, come Saviano, ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. La presenza parte civile della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) e dell’Ordine dei Giornalisti ha ulteriormente sottolineato l’importanza simbolica e concreta di questa sentenza.
La lotta alla criminalità organizzata, soprattutto quando tocca figure come i giornalisti, passa anche da momenti come questo. Sentenze che non restituiscono ciò che è stato tolto, ma che sanciscono un principio fondamentale: la verità e il diritto di raccontarla non si intimidiscono.