Riccardo Bossi condannato per maltrattamenti alla madre: nuove ombre sul figlio del fondatore della Lega

Riccardo Bossi torna a far parlare di sé, ancora una volta per motivi giudiziari. Il primogenito di Umberto Bossi, storico fondatore della Lega, è stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi di reclusione dal tribunale di Varese con l’accusa di maltrattamenti nei confronti della madre. Una vicenda delicata, personale, ma ormai di dominio pubblico, che getta un’ombra pesante sul cognome Bossi e solleva interrogativi sul rapporto complicato tra giustizia e famiglia.

Condanna per maltrattamenti: la difesa promette battaglia

I fatti risalgono al 2016. Riccardo Bossi non si è mai presentato personalmente in aula durante il processo, ma il suo avvocato, Federico Magnante, ha già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello contro la sentenza. Nonostante la madre abbia dichiarato al giudice che “tutto è stato risolto”, aggiungendo che i rapporti familiari si sarebbero normalizzati, la giustizia ha deciso di proseguire. La donna aveva addirittura ritirato la querela relativa alle minacce ricevute, ma ciò non è bastato per bloccare l’azione penale: per l’accusa di maltrattamenti, infatti, si procede d’ufficio. E così il processo è andato avanti, fino alla condanna.

Secondo quanto ricostruito dalla Procura, il comportamento di Bossi Jr. sarebbe stato reiterato e aggressivo. In numerose occasioni avrebbe chiesto insistentemente denaro alla madre, con toni violenti e intimidatori. In un episodio specifico, sarebbe addirittura arrivato a colpirla, sbattendole la testa contro un muro all’interno dell’abitazione di famiglia, situata ad Azzate, in provincia di Varese. Un quadro preoccupante, aggravato da ulteriori episodi di insulti, paura e tensione che, secondo l’accusa, avrebbero costretto la donna ad allontanarsi da casa per proteggersi.

Non solo Varese: altri guai giudiziari per il figlio del “Senatur”

Ma quella di Varese non è l’unica ombra sul percorso giudiziario di Riccardo Bossi. A gennaio 2025 è arrivata un’altra condanna: due anni e sei mesi, questa volta dal Gup di Busto Arsizio, con rito abbreviato, per aver percepito indebitamente il reddito di cittadinanza. Secondo l’accusa, Bossi avrebbe incassato l’assegno mensile senza averne diritto, attraverso false dichiarazioni. Una frode aggravata, che ha avuto conseguenze pesanti sul piano giudiziario e mediatico. Le motivazioni della sentenza saranno rese note entro novanta giorni, ma il quadro complessivo non lascia spazio a molte interpretazioni.

Il caso ha suscitato indignazione anche per il fatto che Riccardo Bossi, pur essendo personaggio noto e con un cognome di peso, avrebbe approfittato di un sussidio destinato alle persone realmente in difficoltà. Non è la prima volta che viene associato a episodi controversi: negli anni, il figlio del fondatore della Lega è finito più volte sulle pagine dei giornali per vicende giudiziarie, mancati pagamenti, inadempienze e problemi economici. Un passato che sembra inseguirlo, e da cui non riesce a liberarsi.

Il peso di un cognome importante e la crisi personale

Essere il figlio di Umberto Bossi non è semplice, soprattutto quando la propria condotta privata si scontra con la visibilità pubblica e politica del padre. Riccardo, pur non avendo mai avuto una carriera politica paragonabile a quella paterna, è sempre stato al centro dell’attenzione, nel bene e nel male. Ma se negli anni giovanili il suo nome era legato al motorsport e a una vita mondana, oggi il suo volto è associato più alle aule di tribunale che ai riflettori dello sport o della politica.

Le vicende personali e giudiziarie che lo coinvolgono sembrano raccontare la parabola discendente di un uomo in difficoltà, che non è riuscito a trovare un proprio equilibrio né un’identità stabile, schiacciato tra aspettative, errori e fragilità. E in tutto questo, la sofferenza più grande resta quella legata ai rapporti familiari. Perché, al di là delle aule di giustizia, delle condanne e dei ricorsi, resta la ferita intima di un conflitto con la propria madre. Una ferita che, anche se dichiarata “risolta”, lascia cicatrici profonde.

Il futuro? Incerto, tra appelli e riflessioni

Ora si attende il secondo grado di giudizio. L’appello, promesso dall’avvocato difensore, potrebbe ribaltare la sentenza di primo grado. Ma al di là degli esiti legali, la questione tocca corde delicate: quella della violenza familiare, della responsabilità personale, e dell’uso improprio di risorse pubbliche. Temi che meritano attenzione, al di là del nome coinvolto.

Una storia che mescola cronaca e dramma personale, e che ci ricorda quanto sia sottile il confine tra privato e pubblico, tra perdono e giustizia.

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