La tragica morte del brigadiere Carlo Legrottaglie ha lasciato un segno profondo nella coscienza collettiva italiana. Ma a far discutere, oggi, è anche quanto accaduto nelle ore successive al suo assassinio. Due agenti di polizia, infatti, sono finiti sotto indagine per omicidio colposo a seguito della morte di Michele Mastropietro, il presunto killer del brigadiere, rimasto ucciso durante la sua cattura. Una vicenda complessa che ha innescato un acceso dibattito pubblico, giuridico e politico, rimettendo al centro la delicata questione della tutela degli operatori delle forze dell’ordine.
Secondo l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del bandito Camillo Giannattasio, la morte di Legrottaglie sarebbe avvenuta perché i due malviventi temevano che, una volta arrestati, i carabinieri avrebbero scoperto il loro arsenale. Le forze dell’ordine, dopo poche ore dal delitto, hanno infatti rinvenuto nelle proprietà di Giannattasio e Mastropietro – quest’ultimo deceduto nel conflitto a fuoco – un vero e proprio deposito di armi: pistole, fucili, munizioni, ma anche targhe false e passamontagna.
Il giorno della tragedia, a Francavilla Fontana, Mastropietro aveva intenzioni ben precise: si preparava a un massacro. Dopo aver sparato e ucciso Legrottaglie, la sua pistola si inceppò, impedendogli di colpire altri agenti e persino contadini presenti nella zona. Giannattasio si arrese, mentre il complice fuggì, dando inizio a un inseguimento culminato in una nuova sparatoria, sotto gli occhi attoniti di numerosi braccianti agricoli.
Ed è proprio durante questa fase concitata che Mastropietro perse la vita. Ora, in attesa dell’autopsia fissata per il 17 giugno, la procura di Taranto ha aperto un’indagine per omicidio colposo nei confronti di due agenti. Una decisione che ha sollevato un polverone di polemiche e acceso il dibattito sulle regole che disciplinano la gestione delle indagini in casi così delicati.
Al centro della discussione vi è l’obbligo automatico di notifica dell’avviso di garanzia agli agenti coinvolti in operazioni ad alto rischio. Secondo alcuni, si tratterebbe di una formalità dovuta, utile a garantire una corretta ricostruzione dei fatti. Secondo altri, invece, è un segnale distorto che rischia di delegittimare il lavoro delle forze dell’ordine. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno subito chiesto una revisione della norma, ricevendo l’appoggio del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Anche sui social e da parte dei sindacati è montata l’indignazione.
Il segretario generale del Siap (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia), Giuseppe Tiani, ha dichiarato: “Viviamo in un Paese pieno di contraddizioni, dove chi lavora onestamente e si espone per proteggere gli altri viene spesso messo sotto accusa. I poliziotti e i carabinieri sono tra coloro che pagano il prezzo più alto, anche quando agiscono per difendere la collettività”.
L’avvocato Giorgio Carta, che sta seguendo la vicenda, ha chiarito che l’apertura di un’indagine a carico dei due poliziotti rappresenta un atto dovuto dal punto di vista giuridico, utile a garantire la piena trasparenza dei fatti e a tutelare gli stessi indagati. Ma ciò che preoccupa, spiega il legale, è ciò che accade dopo.
Una volta accertata l’innocenza degli agenti e chiuso il procedimento con l’archiviazione o l’assoluzione, spesso rimane irrisolta la questione delle spese legali. “Non è affatto scontato – scrive l’avvocato – che lo Stato rimborsi per intero quanto anticipato dagli agenti per difendersi. Il recente decreto sicurezza ha raddoppiato l’anticipo massimo da 5.000 a 10.000 euro, ma resta comunque insufficiente per garantire una tutela piena”.
Il nodo, infatti, sta nella valutazione soggettiva della congruità delle spese, che può portare a rimborsi parziali anche in presenza di assoluzioni piene. Un paradosso, secondo molti, che mette in discussione il principio stesso di protezione istituzionale.
“Se davvero vogliamo che lo Stato stia dalla parte di chi rischia la vita ogni giorno – conclude Carta – la tutela legale deve essere garantita in modo automatico, senza condizioni. Non può essere un privilegio, ma un diritto”.
Questa vicenda, ancora in fase di accertamento, ha quindi acceso i riflettori su un problema sistemico: la necessità di riformare le regole di ingaggio giuridico per chi indossa una divisa, restituendo fiducia, dignità e certezza a chi ogni giorno si espone per difendere la società.