La Flottilla tra appelli, accuse e tensioni: il caso che divide l’Italia e Israele
Negli ultimi giorni il dibattito pubblico italiano e internazionale è stato dominato da un unico tema: la Global Sumud Flotilla. Una missione di attivisti civili diretta verso Gaza con l’obiettivo dichiarato di rompere il blocco navale imposto da Israele e portare aiuti simbolici alla popolazione palestinese. Una vicenda che intreccia politica, diplomazia, diritto internazionale e sicurezza, accendendo le polemiche e dividendo opinioni a tutti i livelli istituzionali.
Durante il Consiglio europeo informale di Copenaghen, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha usato mezzi termini. Incalzata dai giornalisti, ha definito la missione «irresponsabile», sottolineando come, in un momento in cui si intravede «una possibilità storica di pace», un’iniziativa del genere rischi di «provocare incidenti» difficili da contenere. Meloni ha richiamato gli appelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e di diversi leader europei, insistendo su un punto: «Nessuno nega l’urgenza degli aiuti umanitari, ma forzare un blocco navale è un’altra questione, con implicazioni potenzialmente pericolose».
Poche ore dopo, la premier è stata ancora più diretta in un’intervista televisiva: «Forse le sofferenze del popolo palestinese non erano la priorità di chi ha organizzato questa iniziativa». Un messaggio che non ha mancato di suscitare reazioni, soprattutto tra gli stessi partecipanti italiani alla Flottilla.
In mare aperto: l’avanzata della Flottilla e le mosse di Israele
Mentre la politica discute, il mare racconta un’altra storia. A circa cento miglia da Gaza, quarantacinque imbarcazioni proseguono lentamente il loro viaggio. A bordo, cinquecento attivisti provenienti da vari Paesi, una cinquantina dei quali italiani. Dai radar emergono segnali chiari: la marina israeliana osserva e si prepara a intervenire.
Secondo fonti militari di Tel Aviv, citate da Haaretz, si tratta di un’operazione «complessa, con possibilità concrete di incidenti». L’ordine ufficiale impartito alle unità d’élite della marina, lo Shayetet 13, è di non ricorrere a forza letale. Tuttavia, la variabilità della situazione resta alta. I piani prevedono il trasferimento forzato degli attivisti su una nave militare e il rimorchio delle imbarcazioni verso il porto di Ashdod. In scenari estremi, alcune barche potrebbero perfino essere affondate.
La fregata Alpino e la protesta italiana
Alle 14, la fregata italiana Alpino ha annunciato via radio la decisione di fermarsi a 150 miglia dalla costa, definendo quella soglia «linea rossa da non superare» per ragioni di sicurezza. La scelta è stata accolta con dure critiche. Maria Elena Delia, portavoce italiana della Flottilla, ha denunciato ai microfoni di Radio Popolare: «Non è protezione, è sabotaggio. Vogliono dividerci e demoralizzarci. Israele applica un blocco illegale e il silenzio del mondo è intollerabile».
Le accuse di Israele e la replica degli attivisti
In serata, Israele ha alzato il livello dello scontro mediatico. L’Idf, come riportato dall’Ansa e rilanciato dal Times of Israel, ha diffuso documenti secondo i quali Hamas avrebbe avuto un «coinvolgimento diretto» nel finanziamento della Flottilla. Sono stati citati nomi come Zaher Birawi, veterano delle missioni pro-Palestina, e Saif Abu Kashk, imprenditore residente in Spagna. «Queste navi appartengono a Hamas», scrivono i militari.
La risposta degli organizzatori è stata immediata. «Propaganda», ha replicato Delia, invitando organismi indipendenti a verificare l’autenticità dei documenti. «Siamo una missione civile sotto gli occhi dell’Europa, non un braccio di Hamas».
A sostegno della Flottilla sono intervenute anche associazioni giuridiche italiane come Asgi, Giuristi Democratici e Comma 2, che in un comunicato congiunto hanno affermato: «La navigazione è conforme al diritto internazionale. È Israele a violarlo, con il blocco navale e gli attacchi armati alle imbarcazioni».
Le voci a bordo e gli appelli internazionali
Gli attivisti non arretrano. Arturo Scotto, deputato del Partito Democratico presente a bordo, ha dichiarato a Repubblica: «Non ci fermeremo. Siamo in acque internazionali e bloccarci sarebbe illegale. Certo, se la marina israeliana ci imporrà l’alt, non metteremo a rischio la vita degli equipaggi. Ma la battaglia politica andrà avanti».
Dal Vaticano, Papa Francesco ha auspicato che «non ci sia violenza e che siano rispettate le persone». Un appello che ha fatto il giro del mondo ma che in mare, tra attesa e tensione, sembra risuonare come un’eco lontana.
La preparazione israeliana e l’incognita delle prossime ore
Un alto ufficiale israeliano, intervistato da Channel 12, ha parlato esplicitamente di «provocazioni possibili», ricordando che a bordo ci sono parlamentari, personaggi pubblici e celebrità, con il rischio che qualcuno reagisca con forza. Per questo Israele ha predisposto un piano dettagliato: blocco in mare aperto, trasferimento ad Ashdod, poi il passaggio al carcere di Ketziot. Un’operazione autorizzata perfino in coincidenza con lo Yom Kippur, con via libera rabbinico speciale.
Quattro ospedali – Assuta di Ashdod, Barzilai di Ashkelon, Kaplan di Rehovot e Shamir-Assaf Harofeh di Be’er Yaakov – sono già stati messi in stato di allerta. Nel frattempo, in mare resta solo il silenzio interrotto dal rumore dei motori e dalle luci che tremolano sull’acqua. Un cronista a bordo racconta via telefono: «Si percepisce l’attesa, come se tutti trattenessero il respiro». Forse è davvero questione di ore.